Testimonianza scritta dai PP. Edouard Glotin e Albert Vanhoye, compagni di studio di
P. Bernard, pubblicata su Compagnie, notiziario della provincia gesuita di Francia nell’ottobre 2001.

Primavera 1940. Da Berck, sua città natale, si fuggiva davanti all’esercito tedesco. “Perché io, su questi sacchi in un camion e con le braccia in croce?” Egli faceva risalire a quel momento il suo ritorno a Dio, dal quale si era allontanato, verso la fine dell’infanzia, la sera in cui aveva rifiutato alla madre di dire le preghiere.
Era nato il 18 marzo 1923 in una modesta famiglia di quattro figli. Il padre, di origine còrsa, era postino e la madre rifaceva i materassi vecchi. Aveva frequentato due anni di École Normale [istituto superiore di formazione per maestri elementari], dai quali gli era rimasto il dono dell’insegnamento. Poco tempo dopo un primo contatto con il tomismo avrebbe illuminato per sempre la sua intelligenza e il 28 settembre 1943 bussava alla porta del noviziato di Champagne, sfollato nel sud-ovest della Francia.
Sin dalla “philo” [il terzo liceo classico frequentato da P. Bernard per integrare gli studi precedenti e chiamato appunto “filosofia”, in quanto nel sistema scolastico francese è prevalentemente dedicato allo studio di questa materia] e dagli studi di filosofia a Vals (1947-1950) una precoce reputazione di superdotato gli valse l’affettuoso nomignolo di “noûs” (la ‘s’ va pronunciata), vale a dire di ‘Intelletto’ in senso aristotelico. Ma a questo proposito va detto che i mali di testa del periodo dello juniorato lo avevano fatto persino dubitare di poter diventare gesuita: “Mi sono donato alla Compagnia” era stata la sua reazione. “Se non potrò studiare, sarò fratello coadiutore.”
Nella primavera del 1950 a Montpellier, una menzione “ottimo” premiava lo scritto finale (mémoire) del Diploma di Studi Superiori (D.E.S.) in filosofia sul tema L’affirmation de l’existence chez Kant. “E’ della nostra razza” concludeva quel giorno Ferdinand Alquier, il suo maestro agnostico.
Ma Charles André viveva altrove. “La spiritualità è l’unica cosa che mi abbia mai veramente interessato” avrebbe confidato ai suoi compagni il giorno del 50° anniversario del suo ingresso nella Compagnia di Gesù, quando era prossimo a concludere una carriera di professore (1962-1996) e di preside (1990-1996) presso l’Istituto di Spiritualità della Gregoriana.
“Qual è stato l’elemento fondamentale del suo insegnamento?” si chiedeva l’Osservatore Romano dell’8.02.2001. Indubbiamente il suo sforzo di chiarire e illuminare lo stretto rapporto fra spiritualità e teologia fondandolo su solide basi antropologiche, stabilendo, da un lato, la scientificità della teologia spirituale e lavorando, dall’altro, a fare della spiritualità un’autentica fonte dottrinale. L’Istituto di Spiritualità scelse dunque come tema del volume in suo onore quello di Esperienza e Spiritualità (Pomel, Roma 1995). In realtà, tutto l’impegno della sua teologia gravita attorno a questo nucleo centrale dell’‘esperienza spirituale’ considerata in tutta la sua ampiezza: ‘Ho cercato, affermava la premessa alla sua Teologia spirituale (6a ed. it., San Paolo, Cinisello Balsamo, 2002, p. 9) di aderire alla totalità dell’esperienza spirituale, senza escludere quella che si svolge al di fuori dell’ambito cristiano’”.
Si spiega così la scelta precedente degli argomenti del suo duplice dottorato ecclesiastico: Nature et volonté chez saint Thomas d’Aquin (Chantilly 1951) per la filosofia e Théologie de l’espérance selon saint Thomas d’Aquin (Vrin, Parigi 1961) per il biennio romano di teologia. Ma la novità della sua Théologie affective (Cerf, Parigi 1984; ed. it., Teologia affettiva, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985) sarà data dalla combinazione, rara in un intellettuale, di una eccezionale forza speculativa e di una scienza pratica della psicologia, per la quale, fin dai tempi di Vals, la lettura di Pradines aveva acuito l’interesse.
Molto prima che nel 1986 Giovanni Paolo II ricordasse alla Compagnia la sua missione storica, egli si era compenetrato del carisma del Cuore di Gesù – testimoniava, al momento delle sue esequie, il suo amico p. Albert Vanhoye, il quale ricorda, come noi, l’Equipe Saint-Jean che egli riuniva ogni mese a Vals per parlare di questo argomento. Già allora aveva percepito ciò che p. Arrupe avrebbe in seguito chiamato “la dunamis racchiusa in questo simbolo”: affidandocelo, il Signore ci aveva lui stesso consegnato la chiave dell’espressione mistica. Alla scuola dello Pseudo-Dionigi, Charles André non cessò più da allora di adoperarsi per far confluire, senza confusione, la teologia razionale e un altro linguaggio di cui avrebbe affrontato la decodificazione nella sua Théologie symbolique (Téqui, Parigi 1978; ed. it. Teologia simbolica, Paoline, Roma 1984). Proprio la non conoscenza di quel linguaggio, sosteneva, era all’origine della condanna di teologi mistici quali Eckhart.
Il Dio dei mistici, la sua opera fondamentale, non vuole essere una impossibile storia della mistica cristiana, ma una tipologia selettiva di alcune grandi esperienze. Il primo volume (Le Dieu des mystiques. Les voies de l’intériorité, Cerf, Parigi 1994; ed. it. Il Dio dei mistici. Le vie dell’interiorità, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998) riassume l’incessante rilettura di Giovanni della Croce di cui, d’estate, faceva beneficiare i carmeli francesi, prima di esserne accompagnato, lui stesso, in ospedale. Nel volume successivo (La conformation au Christ, Cerf, Parigi 1998; ed. it. La conformazione a Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000) sottolinea il ruolo fondamentale dell’esperienza di santa Margherita-Maria. Nel terzo, infine, (Mystique et action, Cerf, Parigi 2000; ed. it. di prossima pubblicazione) dedica molte pagine a Ignazio. La pubblicazione postuma di un ultimo volume che ricapitola la sua visione della Théologie Mystique è affidata alla professoressa Maria Giovanna Muzj, sua fedele traduttrice: “Ha dichiarato a diverse persone, me compresa,” riferisce quest’ultima, “che l’opera poteva essere stampata così com’era, poiché, pur non essendo completata, conteneva comunque già tutta quella parte di riflessione teorica che ne costituiva l’essenza, il seguito dovendo consistere in una esemplificazione basata sugli autori studiati nei tre volumi precedenti”. “Se Dio vuole prendermi prima che abbia finito, concludeva, vuol dire che il seguito non gli serve”.
Con un tale palmarès “ci si potrebbe fare un’immagine di p. Bernard come di uno studioso e pensatore certamente eminente, ma freddo e astratto” scrive p. Herbert Alphonso, suo collega alla Gregoriana. “Tutt’altro, a dire il vero. Mentre dalle sue esperienze giovanili era rimasto uno spirito saldamente libero e coraggioso, anzi “indipendente” nel senso positivo della parola, trasfondeva nel suo modo semplice e discreto una notevole e benevole umanità. Attento, anche con entusiasmo, agli avvenimenti sociali, politici e persino sportivi del nostro mondo fino alla fine, p. Bernard si è dimostrato, ed è rimasto sempre, un temperamento ottimista, anzi, per alcuni, un ottimista inveterato”. In ogni caso, le numerose persone che si affidavano alla sua direzione spirituale traevano beneficio da questa robustezza del suo carattere e gli amici, ai quali era estremamente fedele, apprezzavano la sua affettività ricca e profonda.
Il caso fatale non fu un problema circolatorio, come nel 1989. Fu un cancro dell’esofago, risalente a due anni prima, a portarlo via in cinque settimane, nonostante un intervento durato 10 ore. Prima di ricoverarsi, emanava una pace che gli derivava dalle lunghe ore trascorse in cappella sia di giorno che di notte, per rinnovare l’offerta della sua vita. “Un giorno l’ho visto tutto raggiante di gioia interiore”, testimonia Maria Giovanna, la sua figlia di elezione. “L’azzurro degli occhi risaltava e dimostrava 15-16 anni, come mi era capitato di vederlo qualche volta in passato.” Nel suo letto d’ospedale ha sofferto molto, ma senza un lamento.
Molto tempo addietro aveva chiesto, con l’ingenuità di un fanciullo educato alla scuola di Teresa, di “morire d’amore”. Ma, sempre come Teresa, era ben consapevole che “morire d’amore non significa morire nei trasporti dell’amore”. Ancora lucido l’antivigilia della morte, come visse l’istante supremo? Rimane il segreto della sua ultima notte solitaria, il 1 febbraio 2001 alle tre del mattino.