Avviso al lettore
Il testo riflette un periodo di incontri di direzione spirituale con il padre Bernard durante il quale la religiosa missionaria medico che lo ha redatto ha fatto con lui gli Esercizi spirituali ignaziani nella vita corrente.
Nel suo insieme il testo mette in evidenza alcuni tratti caratteristici del modo di concepire la direzione/la guida/il consiglio spirituale caratteristico del padre Bernard, quello di condurre la persona a una sempre maggiore libertà interiore. Nella scelta dei temi esso è anche, necessariamente, segnato dalla personalità spirituale e dallo stato di vita della persona concreta che a lui si rivolge. Questo spiega in particolare perché talune problematiche non compaiano mai e altre siano invece prevalenti.
Nel loro insieme tutti questi dialoghi riguardano la vita di preghiera, intesa come l’espressione della vita del cristiano. Le principali tematiche considerate sono: il cammino della preghiera, il senso del peccato, l’affettività spirituale e il discernimento delle mozioni interiori, l’integrazione di preghiera e azione.
Da precisare ugualmente che le conversazioni non erano registrate e nemmeno stenografate, ma dopo ogni incontro la missionaria metteva per iscritto il contenuto del colloquio per fissare la memoria di ciò che il padre Bernard le aveva detto.
Per rendere più agevole la lettura le domande sono scritte in corsivo, le risposte del padre Bernard in tondo.

Il cammino della preghiera

Padre, ho cominciato la meditazione secondo lo schema proposto dagli Esercizi spirituali ignaziani, ma mi sono subito trovata bloccata …
Se la preghiera è di tipo contemplativo è difficile seguire lo schema ignaziano, che è prevalentemente meditativo: conviene allora prendere solo una parola o una frase dalla Scrittura e fare un’orazione tranquilla, di adorazione e contemplazione.
Deve essere un’orazione molto tranquilla di adorazione, di presenza, di disponibilità come atteggiamento interiore, e non come riflessione. Non volersi forzare, tenere il cuore aperto e disponibile, stare alla presenza di Dio anche nell’aridità: ci possono essere tempi di aridità, è normale. Significa che c’è una resistenza interiore o qualcosa da mettere a posto, ma non vuol dire che si debba cambiare tipo di preghiera. Non bisogna tornare alla preghiera di prima per il fatto che dava più sicurezza, ma andare avanti verso una preghiera più semplice.

Ma io sono un tipo molto razionale: desidero conoscere, capire, riflettere.
Il ragionamento è importante, ci vogliono basi dottrinali solide, non astratte, perciò è importante la lettura per acquistare queste basi, ma al di fuori del tempo di preghiera: anche durante gli Esercizi Spirituali è meglio leggere e riflettere non nel tempo della preghiera ma negli intervalli, e durante i tempi di  preghiera rimanere in un atteggiamento molto semplice.

E allora, tutti i punti delle meditazioni che vengono proposti ?
Negli Esercizi  Spirituali il tema della preghiera è dato solo per fissare l’attenzione e non tanto per rifletterci sopra. Il cammino avverrà ugualmente ma in modo molto più semplice e intenso: bisognerà dare più attenzione alle mozioni dell’affettività (pace, gioia, desolazione…). Il principio fondamentale è di non forzare mai …
Non occorre leggere tanto, basta reagire a qualche passo della Scrittura: quando si reagisce è già preghiera. Negli intervalli, invece, riprendere i testi come lettura: non è necessario esaurire l’argomento; ciò che interessa è lo stato d’animo e i pensieri che vengono. Non voler anticipare i tempi successivi: questo tocca al Direttore. L’esercitante deve prestare attenzione alla materia proposta e basta.

Per favore, parliamo di queste mozioni dell’affettività …
Come educare questo senso di presenza affettiva? Ci vuole una certa coscienza intellettuale: la coscienza affettiva infatti non può essere completamente vuota, anche se il contenuto continua a rimanere generico; non potrebbe continuare a lungo senza un contenuto: ci vuole una parola, un’immagine, un pensiero per alimentarla, ma basta ben poco e perciò non esige un grande impegno psichico.

E che cosa vuol dire “esaminare la preghiera”? Quali sono i criteri per farlo? Io non so come parlare della mia preghiera …
Non ha molta importanza in questo caso. E’ il Direttore che chiede e valuta e non occorre che l’esercitante vi si impegni molto: può servire per aiutare altri o per evitare una preghiera troppo intellettuale. Più la preghiera è semplice e meno se ne può parlare: non occorre pensare a come esprimerla, ciò che conta è la tranquillità dell’animo, lo stato generale di pace. La preghiera non è facilmente comunicabile se è  profonda.

Tempo fa, mi era facile pregare in silenzio, davanti al Signore: era molto bello ma ora non ci riesco più.
Un altro errore è che tendiamo a valutare la nostra vita spirituale dalla coscienza che ne abbiamo e a considerare la preghiera come l’unico aspetto della vita spirituale. Invece, il lavoro apostolico fa parte della vita spirituale tanto quanto la preghiera, perché sollecita a crescere nelle virtù teologali: fede e fiducia in Dio che opera attraverso di noi, carità e attenzione verso gli altri.
Poi, non si deve confondere la coscienza che si ha della preghiera con l’essenza della preghiera che è la vita teologale: tra di loro non vi è corrispondenza, anzi spesso sono in contrapposizione, perché si può pensare di avere una interiorità ricca e avere invece una vita teologale debole, oppure sentirsi molto lontani dal Signore, ma di fatto essergli molto vicino. La vita spirituale non si misura dalla coscienza che se ne ha, ma dagli atteggiamenti concreti di amore, di fiducia, di serenità di fondo, di rinuncia a sé stessi.

Ma io ho un ministero da svolgere, per aiutare altre persone: come lo posso fare se mi sento così  incapace?
Uno può veramente aiutare gli altri in modo efficace anche se si sente nella confusione e nella notte. In realtà noi trasmettiamo qualcosa che non ci appartiene: ci viene da Dio e noi siamo solo strumenti e canali per donarlo ad altri. Possiamo far del bene agli altri anche se noi stessi siamo nella notte: certo, il canale deve essere sgombro, il vetro trasparente… ma è sempre Dio che opera! Il dono ci è dato per gli altri e non per noi stessi, per cui posso consolare gli altri e condurli a Dio anche se io stesso sono nella sofferenza.
La Parola di Dio che noi comunichiamo non è legata a quello che io capisco o sento o vivo… Il ministero è separato dalla persona e non posso far dipendere la sua efficacia dalla mia coerenza o dalla consapevolezza che ne ho: sono due cose totalmente diverse. Uno può comunicare gioia e pace anche se personalmente vive nella sofferenza. “Si può donare agli altri ciò che per se stessi non si possiede…”

Mi sembra di mancare di autenticità e di sincerità …
Non si deve confondere la coscienza che si ha di qualcosa con la realtà della fede: la coscienza può essere più o meno intensa e in ogni caso non dipende da noi, e può non corrispondere alla realtà interiore. All’inizio della vita spirituale le due cose vanno di pari passo. Poi fede e amore si approfondiscono, ma può mancarne la coscienza: uno può sentirsi lontano da Dio, ma è una purificazione…. O crede di non pregare, ma è una preghiera più profonda… Ci sono momenti di preghiera intensa, ma non possono durare sempre e allora dopo sembra di non pregare più, ma la disposizione di fondo non cambia, anche se cambia la coscienza che se ne ha. L’importante è mantenere un atteggiamento interiore di abbandono e di offerta e non tanto averne coscienza; magari uno non se ne accorge, ma lo si vede dall’esterno perché c’è una serenità di fondo.

Quante distrazioni nella preghiera: è davvero un cinema di immagini, di pensieri che  mi occupano la mente, spesso sono confusi, senza senso, e mi disturbano molto.
Non bisogna sforzarsi per vincere certi pensieri, perché non sono vere distrazioni ma solo una fluttuazione superficiale senza un vero contenuto. Piuttosto, occorre fare il contrario: lasciarli andare e non seguirli, se no ci si stanca inutilmente e si peggiora la situazione. Non sono vere distrazioni, ma sono indipendenti dalla volontà e indicano un approfondimento della preghiera, se invece si cerca di vincerle, non si riuscirà mai ad approfondire la preghiera. Ė inutile mettersi a lottare: ci si affatica inutilmente. Cercare di trovare il contatto con Dio al di sopra di queste fluttuazioni della mente che non sono controllabili con la volontà. Certo non é un raccoglimento sensibile come lo si vorrebbe avere, ma è una purificazione della preghiera.
Nel caso della vera preghiera non manca mai il senso di pace e di presenza: anche se mente e immaginazione divagano, il cuore rimane alla presenza di Dio; invece nel caso di vere distrazioni sono tutte le nostre facoltà che vengono sottratte alla presenza di Dio.

Mi pare di perdere tempo, il tempo prezioso (che è sempre limitato) che vorrei dedicare alla preghiera.
Bisogna distinguere se la divagazione della mente e dell’immaginazione è dovuta a un raccoglimento più sottile e meno sensibile (il “ fischio del Pastore” come dice S. Teresa) e allora bisogna sostenere il silenzio; se invece questo raccoglimento non c’è, allora può essere utile aiutarsi leggendo, ma pochissimo, solo una frase che aiuti a fissare la mente.
Sono situazioni molto diverse e bisogna distinguerle: man mano che l’esperienza si approfondisce, si chiarisce. Ad ogni modo, nel dubbio, è meglio rimanere davanti al Signore in silenzio, senza tornare a forme di preghiera che andavano bene prima, ma che sono meno profonde.

E’ difficile, quando non sento la presenza del Signore: è un dolore profondo, un senso di vuoto nell’anima …
Il senso doloroso del desiderio di Dio è normale: indica una tendenza profonda verso Dio: la sofferenza è tanto più forte quanto più questo desiderio è profondo e vero. Sentire questa sofferenza è positivo. Se c’è il desiderio, se si soffre per l’assenza è segno che c’è una presenza di Dio, anche se non è percepibile. Come dice san Giovanni della Croce nel Cantico spirituale: “Dove ti sei nascosto, mio Diletto…?”.
Bisogna dunque sostenere questo desiderio e non tornare alla preghiera discorsiva; ci vuole molto coraggio… bisogna fidarsi, perché il deserto fa paura… Ma attraverso questo deserto il Signore parla, non all’intelligenza o all’affettività sensibile, ma a un livello più profondo, al cuore. Bisogna camminare verso un rapporto col Signore che non dipenda dalla sensibilità: il Signore lo si incontra nella fede, nella speranza e nell’amore.

Come fare, allora?
Invece di atti distinti, bisogna curare di più un’attenzione globale al mistero e alla presenza di Dio e non voler fissare tante idee particolari: queste infatti danno sicurezza e soddisfazione perché sono distinte, ma è una preghiera meno profonda. Tenere il cuore attento alla presenza di Dio è un tipo di preghiera contemplativa che sfugge al nostro controllo, ma è più profonda. Bisogna curare il raccoglimento durante il giorno e rinnovare spesso l’offerta del nostro cuore al Signore per ritrovarsi più raccolti nel tempo della preghiera profonda.

La prego, vorrei che mi spiegasse ancora!
Non cercare di fissare idee o pensieri su Dio, perché il senso della presenza di Dio cresce al di là del pensiero e delle immagini. In questa fase di passaggio si può sentire un senso di disgregazione perché non tutte le facoltà sono integrate e non seguono l’affettività che è presente a Dio; in seguito si integreranno meglio e la persona si troverà più unificata.
E’ un progresso normale nella preghiera che si semplifica sempre più ed è normale che si pensi sempre meno.
E’ lo sviluppo normale della preghiera, qual è descritto nei libri e non  bisogna averne paura e nemmeno cercare sicurezze analizzando il proprio pensiero, ma accettare questa assenza di pensieri definiti e aderire a Dio nella fede. E’ un vuoto di contenuti intellettuali, di pensieri, ma non è un vuoto assoluto perché c’è il senso della presenza di Dio, manca la “conoscenza particolare “ ma c’è il senso di Dio.

E’ tutto diverso da quello che mi hanno insegnato fin qui …
Occorre distaccarsi anche da ciò che un tempo era servito a sostenere il cammino di ascesi: andava bene prima, ma ora è cambiato, fa parte della crescita nella vita spirituale ed è normale a un certo punto fare a meno di ciò che prima era servito.
Il Signore non è legato a niente, nemmeno a esperienze passate. Ė libero di manifestarsi come vuole e si può rendere presente in molti modi: il Signore è sempre presente e conduce sempre avanti, anche se per vie nuove e sconosciute.
Noi siamo sempre portati a voler fare noi qualcosa, a misurare il progresso da quello che facciamo, invece no: ad un certo punto la situazione spirituale cambia. Il nostro impegno va messo non nel contrastare questo stato di passività, ma invece nell’assecondarlo, nel lasciar agire sempre di più il Signore e ridurre la nostra attività. Allora si riceve tutto come un dono, in una dimensione nuova… E’ difficile accettare di essere passivi perché sembra di non fare niente e ci si sente a disagio. Invece in quel momento il Signore opera in profondità e compie quello che noi non saremmo mai capaci di fare…

Il senso del peccato

Vorrei capire meglio che cos’è il senso del peccato.
Può essere difficile capire il peccato, in questo tempo in cui si è perso il senso del peccato e il significato di certi valori. Non si deve considerare il peccato in senso troppo stretto, ma averne una concezione ampia: non tanto il singolo atto peccaminoso, quanto una rottura dell’alleanza. Se manca una esatta comprensione dottrinale, è normale che la preghiera si blocchi.
Il senso del peccato non è legato al sentirsene o meno responsabili: basta che io avverta la negatività che è in me e già appartengo al mondo del peccato: che questo sia frutto di una colpa personale o venga dal mondo importa poco; che questi ostacoli vengano da dentro di noi o dall’ambiente non importa, perché il fatto è che non siamo liberi interiormente, non siamo docili al Signore. Per questo si prega  di “sentire il disordine delle mie attività” (ES 63) per potersi purificare. Si chiede “la conoscenza del mondo” perché questa pesantezza ha origine nella mentalità comune; c’è evidentemente un influsso del mondo così com’è ed è importante conoscere il mondo del peccato perché ne sono in qualche modo partecipe. Per purificare e raddrizzare questo disordine è necessario prenderne coscienza: il mio essere storico partecipa a questo mondo di peccato, tutto ciò che in me è negativo risale al mondo del peccato.

Come fare per uscire da una dimensione intimistica del peccato?
La disposizione nei confronti del passato (pentimento) dipende molto dalle persone e dall’ambiente in cui viviamo, che certo non ci aiuta a comprendere il senso del peccato. Ma è meglio puntare su una disposizione positiva, che dia uno slancio verso il futuro; lottare contro ciò che è legato al peccato nel mondo (la miseria, l’oppressione) per essere strumenti di redenzione. Qui si manifesta la dimensione apostolica: c’è un mondo di peccato che si oppone al mondo della redenzione. Questo allarga molto il senso del peccato e lo fa uscire  da una dimensione intimistica. Siamo strumenti di redenzione e dobbiamo conoscere ed eliminare ciò che altera questa trasparenza; cerchiamo di agire in modo positivo nel mondo, mettendo amore, pace e fraternità, lottando contro il disordine senza voler cercare di determinare di chi sia la colpa, un giudizio che spetta solo a Dio.
La mentalità corrente non aiuta a far sentire la responsabilità personale, del rifiuto dell’amore di Dio: si cerca di coprire tutto, di scusare, di dire che uno non era responsabile, che non sapeva o che non voleva farlo….Una volta invece era molto più chiaro, il peccato era più oggettivo. Ora più che al peccato contro Dio si è sensibili al peccato contro l’uomo, ma anche questo in categorie sociologiche molto riduttive.
Anche se siamo immersi in questa mentalità, dobbiamo affinare la nostra coscienza spirituale. Ciò che si verifica in relazione col progresso spirituale: un principiante può veramente non aver coscienza di certe sue resistenze all’amore di Dio. Ë più facile rendersi conto di mancanze esterne di amore e di disponibilità verso gli altri, mentre solo una coscienza sensibile nota resistenze o mancanze verso l’amore di Dio, secondo il grado del suo progresso spirituale e crescendo nella comprensione dell’amore di Dio.

Come si può lottare contro il peccato?
Vi sono due modi di lottare contro il peccato: o purificarsi dal male per crescere nella fede e nell’amore, oppure dilatare la coscienza e cioè aprirsi di più ai valori spirituali, crescere nell’amore e in questo modo vincere il male. Dipende dallo stato spirituale, dalla maturità della fede: non si può applicare a tutte le fasi della vita gli stessi criteri che si usano per i principianti. C’è un’evoluzione e una crescita e bisogna tenerne conto, è tutta la vita che matura.
La conversione ci vuole sempre, ma non la si può pensare sempre come la si pensava una volta: incentrata su cose da fare o da non fare. La vita si fa più semplice e unificata e non occorre più guardare a tante cose in modo così minuzioso.
Anche l’esame di coscienza a un certo punto non ha più senso perché la coscienza diviene sensibile e attenta e ci si accorge subito se c’è qualcosa che non va, perché si vive continuamente in stato di “esame”. D’altra parte su certe cose non si ha una presa diretta, non è possibile  liberarsene da soli. A questo punto lo stesso ”Esame” in cinque punti di sant’Ignazio non corrisponde più al nostro senso di morale e di peccato: ora conta di più qualche momento intenso di contatto con Dio!

Ma quand’è che si può dire che un pentimento è vero?
Il vero pentimento è il senso dell’amore sprecato: è accorgersi di essere ancora centrati su noi stessi e non su Dio, di porre le nostre sicurezze in tante cose diverse da Dio, di non essere totalmente al suo servizio. Certo, queste tendenze fanno parte della nostra natura umana e non dipendono dal nostro controllo, ma non devono impedirci di metterci davanti a Dio nella fede, nella speranza e nell’amore. Queste virtù non dipendono dalla mia volontà né dal sentimento, ma sono dono di Dio. E così anche il senso del peccato è dono di Dio. Ė giusto desiderare di sentirlo, perché ciò è collegato al senso dell’amore di Dio, ma in fondo quel che conta non è tanto che io abbia chiaro il senso del mio peccato, quanto il fatto che Dio è misericordia e amore… Allora possiamo dire: “Signore, tu conosci  il mio peccato, anche se io non riesco neppure a vederlo, e io credo nella tua infinita misericordia!”.  Questo è ciò che conta veramente!

Perché e in che senso si parla di seconda conversione?
La seconda conversione è diversa dalla prima: non si tratta tanto di correggere un atteggiamento sbagliato facendolo diventare giusto, quanto piuttosto di operare un raddrizzamento interiore e di far convergere tutto verso Dio. E’ il processo con cui ci si dà interamente al Signore: la donazione si fa sempre più completa e coinvolge veramente tutta la persona. E’ eminentemente passiva, è il Signore che opera: prima uno  costruiva la propria vita spirituale – e faceva bene a farlo – ma questo avveniva secondo il proprio modo di pensare e i propri programmi; poi invece si capisce che è Dio colui che opera. Tutto ciò che c’è da fare è lasciarlo agire, collaborare ma in modo più passivo e anche accettando di non capire… L’atteggiamento fondamentale è di lasciar fare, di aderire, anche se la sensazione soggettiva è dolorosa e sembra distruggere la persona invece di costruirla (come lo scultore che spacca il blocco di marmo per far emergere la figura che ha in mente….) E’ il momento di crescere nella fede, di lasciarsi fare; è una purificazione passiva nella quale si deve rinunciare a vedere dove si sta andando e per quale via.
A un certo punto è normale sentire una chiamata a un maggior raccoglimento e silenzio; non vuol dire che si debba pensare a un altro tipo di vita: si tratta piuttosto di una chiamata a un raccoglimento interiore da vivere nelle varie attività della vita apostolica, sia pur cercando di evitare tutto ciò che è inutile e può distrarre. A poco a poco, si imparerà a distinguere il silenzio e la solitudine abitati da Dio da ciò che è solo assenza di parole. E’ una chiamata di Dio a un raccoglimento più profondo, che non si lascia facilmente disturbare da quello che può succedere lungo la giornata: quanto più profondo è il raccoglimento, tanto meno risente delle circostanze e delle emozioni. Non è tanto questione di tempi di silenzio e tempi di attività, ma di qualità di contatto interiore con Dio, che poco a poco va crescendo, qualunque cosa si faccia. E’ un’evoluzione normale.

Ma qualche volta questi cambiamenti fanno un po’ paura …
Non bisogna avere paura, ma lasciarsi portare perché è il Signore che opera. Bisogna assecondare questo invito di Dio e buttarsi… La paura può venire dal fatto che ci si trova davanti a qualcosa di nuovo, ma occorre fidarsi e assecondare con generosità questo invito. A poco a poco la preghiera si fa continua e più semplice: l’unico modo per avere una preghiera continua è la semplicità, perché solo così diminuisce lo sforzo psichico e la tensione e si può vivere in un atto continuo di preghiera. Allora è facile mettersi in contatto con Dio nei tempi di preghiera esplicita: appena uno è libero dalle occupazioni, ricade spontaneamente nella preghiera.

L’affettività spirituale e il discernimento delle mozioni interiori

Tante volte mi capita di non saper giudicare il senso di una mia reazione interiore a una situazione …
Non bisogna contrapporre moti psicologici e moti spirituali e nemmeno serve analizzare la differenza: non è la struttura che conta, ma l’effetto che producono, e cioè se aiutano o se ostacolano la crescita spirituale. Decisiva è la finalità spirituale dei moti affettivi; per questo è necessario vederne il dinamismo. La vita cristiana porta sempre verso una crescita e tutto ciò che fa andare avanti viene dallo spirito buono, mentre ciò che arresta la crescita viene da quello cattivo. Quel che conta è la direzione verso cui questi moti affettivi conducono: se è positiva o negativa. Una malattia accolta con fede può avere un valore positivo in senso spirituale; un senso di benessere, che sembra positivo, può trasformarsi in vanagloria e diventare ostacolo alla crescita spirituale. Niente possiede un significato per sé stesso, il significato viene dal dinamismo spirituale: le cose in sé sono “indifferenti”, dipende da dove mi portano, se ne faccio degli strumenti di crescita o meno. In tal senso il padre spirituale è in grado di giudicare meglio della persona interessata: anche una situazione percepita come negativa e faticosa può portare a una crescita. Mentre la persona che ne sta soffrendo non è in grado di vederlo, il padre spirituale può osservare con obiettività dove porta il dinamismo.

Vorrei comprender meglio il ruolo dei moti affettivi e come discernere la direzione in cui portano.
Questi moti affettivi sono passivi, in quanto costituiscono un contraccolpo, il modo con il quale ognuno reagisce alla realtà, e non si possono creare artificialmente: sarebbe come prendere una droga per sentirsi bene. Non è possibile modificare i sentimenti, ma è sempre possibile crescere nella fede e nell’amore anche attraverso uno stato d’animo negativo.
I moti di consolazione e desolazione sono moti affettivi, ma non molto profondi: da una parte bisogna prestare loro attenzione perché sono significativi, ma d’altra parte si deve lasciare spazio a un livello più profondo. Dipende molto dalle persone, che sono più o meno emotive. Bisogna arrivare a una affettività profonda, duratura, che non si turba facilmente: il discernimento sta appunto nel riconoscere che ci sono vari livelli di affettività e arrivare all’affettività profonda.
Per poter fare il discernimento occorre chiedersi: da dove è nato questo pensiero? Da dove viene? Dove porta? Che effetti ha? Dona pace o inquietudine? Che significato ha?
All’inizio non si può sapere dove porta, allora bisogna lasciar sviluppare il pensiero e vedere come si evolve. Chiedere luce per poter veder chiaro in questa successione di pensieri: è la persona stessa che deve vedere e non ci si può aspettare una parola dall’esterno. Bisogna vedere come si manifesta lo spirito cattivo in ogni persona: ognuno ha il suo modo di essere tentato che si può ripetere in modo analogo in futuro. Cercare di “seguire il corso” del pensiero: ritrovare in quale momento è emerso quel pensiero. Ė importante capire come sono stato ingannato per saper applicare questa presa di coscienza quando mi ritrovo in condizioni simili.

Questa indicazione mi sembra molto importante. In che cosa consiste allora una pedagogia dell’affettività?
La formazione religiosa e tutta la spiritualità degli anni passati risentiva molto del razionalismo dell’Ottocento e pensava di poter negare ogni manifestazione affettiva. Questo però non è possibile, tanto meno all’inizio della vita spirituale; il rischio è di impoverire le persone e di rimanere senza niente.
Occorre distinguere i vari livelli dell’affettività (fisico, psicologico, spirituale, soprannaturale) e far convergere tutto verso il  livello che vogliamo sia quello dominante. Sviluppare l’affettività spirituale è un bene, perché così l’adesione al Signore è più piena, coinvolge tutta la persona e non solo la volontà e la ragione.
Ogni livello dell’affettività tende a essere autonomo e a prevalere attirando a sé gli altri: ad esempio, quando uno è malato, tutto si focalizza attorno alla sensazione di malattia. Anche l’ambiente socio-culturale riveste una grande importanza, perché può dare maggior valore a un livello piuttosto che a un altro. Una sana pedagogia dell’affettività non consiste nel reprimere o ignorare i livelli inferiori che fanno parte della persona umana, ma nel prenderne coscienza e integrarli nel livello che vogliamo sia quello prevalente e  cioè il livello spirituale. E’ un processo lento e graduale in cui non si può anticipare nulla, ma occorre seguire le leggi del tempo.

Come si potrebbe definire un rapporto positivo con il passato? Ė utile coltivare la memoria di esperienze e intuizioni del passato?
E’ bene, sì, trarre lezioni dal passato: se una cosa ci aiuta la usiamo, se no la lasciamo. Se è una perdita di tempo o un rimpianto del passato, non serve; se invece porta una luce sul presente, va bene: tutto dipende dall’effetto che ha.
L’origine della consolazione o della desolazione conta poco, cioè se viene da cause naturali o meno. Ciò che conta è il suo significato spirituale; in questo modo non si perde tempo a analizzarne la causa, perché ciò che conta è il frutto che porta e non la causa.
L’esperienza spirituale ha già avuto il suo effetto e non serve rievocarla successivamente: è il presente che conta e la volontà di Dio sta nel presente, non nel ricordo del passato o in un futuro immaginario. La grazia viene data per il presente e basta: bisogna andare avanti e non fermarsi a guardare il passato. Può essere utile se serve a ringraziare Dio, ma c’è sempre il pericolo di guardare a se stessi, di voler possedere il passato. Invece no: “Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta” (Fil 3,13-14). C’è un tempo per ricordare e un tempo per dimenticare….  Come per l’intelligenza, che fino a un certo punto è bene usare e poi la si lascia, così anche per la memoria: a un certo punto bisogna staccarsi dai ricordi e andare avanti. Non c’è contraddizione perché sono fasi diverse della vita spirituale.

Ma allora quello che valeva in una fase, può non valere più in un’altra?
Un errore della nostra formazione è quello di credere che le regole di un tempo vadano bene sempre; invece no, la persona cresce e ciò che andava bene un tempo, poi non serve più. Se non si sa che è giusto così, questo crea disorientamento.
Dio è sempre in avanti: non dobbiamo attaccarci alle grazie del passato. Ė un’illusione pensare che prima andasse meglio, perché il cammino spirituale è sempre progressivo, se non c’è il peccato. Dobbiamo staccarci dai beni materiali e anche da quelli spirituali, non cercare sicurezze nel passato ma confidare totalmente in Dio: conta solo il presente e il futuro.
La memoria presenta due aspetti: la capacità di ricordare le cose passate e il fondo dello spirito, cioè la nostra coscienza in cui Dio è presente.  Invece di avere il ricordo di vari beni particolari, rimane solo il ricordo della presenza di Dio, se non pensiamo ad altre cose particolari, emerge la presenza di Dio.

Questo significa allora che l’affettività spirituale segue regole proprie?
Non si deve far coincidere una tranquillità psicologica con la serenità che viene dalla fede e dal raccoglimento in Dio: sono due livelli differenti, da non confondere. L’affettività è il nostro modo di reagire alle situazioni e alla vita: c’è un livello psico-fisico, un livello superiore e un livello spirituale, sono livelli diversi che si uniscono nella coscienza che la persona ha di sé.
L’affettività spirituale è diversa da quella sensibile, perché il rapporto con Dio è diverso dalla relazione con una persona umana. La coscienza che noi abbiamo della vita spirituale e del rapporto con Dio non corrisponde alla realtà di questa vita, che dipende invece dall’atteggiamento di fondo della volontà. Non dipende da noi avere certi sentimenti spirituali: possiamo chiederli a Dio, ma ciò che conta è l’adesione della volontà.
Si parla di una sensazione di “vuoto” nella preghiera: a volte manca un’attività discorsiva consapevole, ma a livello profondo c’è la presenza di Dio. L’attività discorsiva può servire per arrivare al contatto con Dio, ma se il Signore concede già questa sua presenza non c’è più bisogno di elaborare concetti, idee o sentimenti: allora il “ vuoto” non è vero vuoto, ma è carico della presenza di Dio…
Quando si fanno cose secondo la volontà di Dio, in obbedienza a Lui, il raccoglimento non ne viene turbato. Il vero raccoglimento non viene dall’ambiente, ma da Dio che agisce all’interno di noi, anche se è pur sempre importante una certa disciplina di vita e silenzio esteriore. Questa presenza di Dio, al di là di un’attività discorsiva cosciente, può assumere aspetti diversi secondo le persone. Per alcuni può essere una presenza affettiva, per altri un’umiltà profonda in cui si riconosce di non poter far nulla senza Dio, o una libertà  interiore, una fiducia di fondo… ognuno deve trovare il suo modo.
E’ bene fermarsi in questo silenzio, che è riposo contemplativo, e non allontanarsene leggendo o facendo o altro.

Vorrei che mi parlasse ancora del valore positivo della sensazione di “vuoto”.
“Le cose vecchie sono passate, ma quelle nuove non ci sono ancora” (2Cor 5,17). La sensazione di “vuoto”  indica una fase spirituale importante e positiva. Il desiderio di Dio dilata la capacità di accoglierlo ed è perciò da coltivare, anche se ad un certo punto cresce da solo, pur dovendo essere accompagnato da pazienza, umiltà, disponibilità. Non si ha nessun diritto né si può esigere nulla da Dio. Aver fretta, essere impazienti e ansiosi è un difetto dei principianti, è “gola spirituale”. Bisogna lasciare tutto, veramente tutto, anche questo desiderio – che in sé è buono – per essere disponibili a ciò che Dio vorrà; rimanere in attesa nella pace e nella pazienza che Egli si manifesti quando vorrà.
Certo, è doloroso! Ma non si deve cadere nella tentazione di cercare dei surrogati. Occorre invece accettare questo vuoto: Dio é presente, ma lo si coglie solo nella fede e nella speranza, anche se la preghiera è arida e faticosa.
Soffrire per il senso di vuoto, per l’assenza di Dio è una forma di desiderio, è preghiera, anche se non sembra. Ė un modo per mezzo del quale il desiderio di Dio cresce e si esprime: amare una persona, desiderare di stare insieme e soffrire per la sua assenza è amore, è preghiera.
A volte sembra che anche il desiderio di Dio sia spento, ma non è vero: la sofferenza che si prova nella notte è segno di una presenza di Dio che non scompare ma si annebbia e non è più percepita a livello sensibile, come prima. Ma il Signore c’è, ci ama, ci cerca sempre: questo è ciò che conta!

L’integrazione di preghiera e azione

La grande questione è sempre come integrare la nostra vita attiva in mezzo agli altri con il nostro rapporto con Dio. In fin dei conti è la questione dell’apostolato …
Ciò che costituisce l’unione con Dio è la vita teologale. La preghiera è un mezzo, indispensabile ma non esclusivo, per entrare in contatto con Dio, perciò tutto ciò che aumenta la vita teologale, la fede, la speranza e l’amore, unisce strettamente a Dio, anche se non è preghiera nel senso stretto. E’ importante comprendere questo, perché solo così può avvenire un’integrazione tra preghiera e vita. La formazione che veniva data non aiutava in questo, perché separava e quasi contrapponeva preghiera e azione, quando invece sant’Ignazio parla di “trovare Dio in tutte le cose”.
La nostra vita si svolge tra questi tre poli: preghiera, apostolato e vita comune. Ciò che fa la sintesi tra queste dimensioni – che possono essere in contrasto tra loro – è la vita teologale. Sono le virtù teologali che fanno unità nella nostra vita e superano le tensioni della vita apostolica: la fede è fondamentale nel rapporto con Dio, la speranza nell’apostolato e la carità nella vita comune.
Anche nell’apostolato ci vuole una prospettiva ampia e profonda di fede: sapere che Dio opera nella storia e si serve di tutto per costruire il suo Regno. Non siamo abituati a pensare in questi termini i nostri impegni apostolici, ma in realtà è la stessa cosa che per la vita spirituale personale.
La spiritualità della vita apostolica è diversa da quella della vita contemplativa: tutto l’apostolato, la vita della congregazione, la vita comunitaria e di preghiera, tutto è nelle mani di Dio e va visto a un livello di fede.

Vorrei capire meglio in che senso la vita apostolica presuppone vie diverse di purificazione rispetto alla vita contemplativa.
La purificazione della fede avviene nella vita apostolica così come in quella contemplativa, ma in modi diversi. La fede va proposta come ci è stata data e non come noi la sentiamo soggettivamente. La fede si deve spogliare di tutto l’involucro affettivo che l’ha sostenuta per anni e  ridursi a fede pura, al nucleo centrale che è quello dato da Dio. Non si comunica la fede come cosa propria, ma come verità data da Dio; perciò non interessa l’esperienza soggettiva che uno ne ha: uno può ritenere di non avere la fede, ma riuscire a comunicarla ugualmente agli altri.
Nella vita apostolica non si tratta di una disponibilità assoluta e totale, piuttosto ci vuole chiarezza sulle priorità. Ė una questione di organizzazione e di chiarezza: non siamo tenuti a soddisfare i bisogni di tutti. Bisogna tener presenti le esigenze del dovere da compiere e anche della salute. Il termine non è una disponibilità ad ogni costo, ma un servizio valido, e bisogna salvaguardare le condizioni perché esso sia tale. E’ una questione di discernimento; per questo, quando è il caso, bisogna anche saper dire di no; soltanto bisogna dirlo con tranquillità e con cuore aperto.

Quali sono allora gli elementi in comune tra le due vie?
Anche nell’attività – come nella preghiera  – occorre mantenere un atteggiamento di calma e di abbandono: non significa non fare nulla, ma rimanere tranquilli, senza lasciarsi prendere dall’agitazione. Ci sono diversi modi di agire e si deve imparare a operare nella calma, in profondità, senza perdere il contatto con Dio. Bisogna saper cogliere le indicazioni della volontà di Dio e, a partire da lì, agire nella pace, senza agitazione, con distacco, pronti a lasciare tutto quando il Signore lo indicherà. Come nella preghiera, così tutta la vita si pone sotto l’impulso del Signore e va diminuendo l’iniziativa personale. Lo sforzo e l’impegno deve essere di seguire e assecondare l’impulso del Signore e abbandonarsi alla sua volontà.
Quando si è impegnati nel lavoro non si può mantenere un’attenzione intellettuale a Dio,  ma ci può essere un tipo di presenza più semplice, più affettivo. Non è un raccoglimento intenso, non è un senso forte di presenza, ma una presenza più diffusa, affettiva: umiltà e fiducia, sentirsi nelle mani di Dio come uno strumento e non  come un protagonista.
Bisogna distinguere vari livelli nell’affettività: uno superficiale, che è soggetto a fluttuazioni, agitazioni e distrazioni che dipendono dalle circostanze della vita, e un altro più profondo, che permane nella pace e tranquillità in qualunque avvenimento. E’ a questo livello profondo che si può vivere in contatto costante con Dio.
Contemplazione e azione non vanno contrapposte: anche se è un approccio molto comune, la questione può essere risolta solo con una visione unitaria: ciò che conta è la vita teologale che si manifesta sia nella preghiera che nell’attività. Non esiste un unico modo di incontrare il Signore, ma due: la preghiera e la carità.
Bisogna evitare che la preoccupazione per le cose da fare invada tutto il campo della coscienza: affidiamole al Signore con un atto di fiducia e così la “distrazione” può diventare preghiera.