SteveR Copyright © 2025 - Associazione Amici di Padre Bernard - P.Iva/C.F. 97276740582 - All rights reserved Policy
Consigli per una vita unificata
•
Natura e funzione della vita spirituale
•
Interiorità e spirito
•
Dialoghi di direzione spirituale
Il
testo,
redatto
e
condiviso
con
l’Associazione
Amici
di
Padre
Bernard
da
una
religiosa
missionaria
medico,
riflette
gli
incontri
di
direzione
spirituale
con
il
padre
Bernard
durante gli Esercizi spirituali ignaziani nella vita corrente.
Avviso al lettore
Il
testo
riflette
un
periodo
di
incontri
di
direzione
spirituale
con
il
padre
Bernard
durante
il
quale
la
religiosa
missionaria
medico
che
lo
ha
redatto
ha
fatto
con
lui
gli
Esercizi
spirituali ignaziani nella vita corrente.
Nel
suo
insieme
il
testo
mette
in
evidenza
alcuni
tratti
caratteristici
del
modo
di
concepire
la
direzione/la
guida/il
consiglio
spirituale
caratteristico
del
padre
Bernard,
quello
di
condurre
la
persona
a
una
sempre
maggiore
libertà
interiore.
Nella
scelta
dei
temi
esso
è
anche,
necessariamente,
segnato
dalla
personalità
spirituale
e
dallo
stato
di
vita
della
persona concreta che a lui si rivolge. Questo spiega in particolare perché talune problematiche non compaiano mai e altre siano invece prevalenti.
Nel
loro
insieme
tutti
questi
dialoghi
riguardano
la
vita
di
preghiera,
intesa
come
l’espressione
della
vita
del
cristiano.
Le
principali
tematiche
considerate
sono:
il
cammino
della
preghiera, il senso del peccato, l’affettività spirituale e il discernimento delle mozioni interiori, l’integrazione di preghiera e azione.
Da
precisare
ugualmente
che
le
conversazioni
non
erano
registrate
e
nemmeno
stenografate,
ma
dopo
ogni
incontro
la
missionaria
metteva
per
iscritto
il
contenuto
del
colloquio
per fissare la memoria di ciò che il padre Bernard le aveva detto.
Per rendere più agevole la lettura le domande sono scritte in corsivo, le risposte del padre Bernard in tondo.
Il cammino della preghiera
Padre, ho cominciato la meditazione secondo lo schema proposto dagli Esercizi spirituali ignaziani, ma mi sono subito trovata bloccata …
Se
la
preghiera
è
di
tipo
contemplativo
è
difficile
seguire
lo
schema
ignaziano,
che
è
prevalentemente
meditativo:
conviene
allora
prendere
solo
una
parola
o
una
frase
dalla
Scrittura e fare un’orazione tranquilla, di adorazione e contemplazione.
Deve
essere
un’orazione
molto
tranquilla
di
adorazione,
di
presenza,
di
disponibilità
come
atteggiamento
interiore,
e
non
come
riflessione.
Non
volersi
forzare,
tenere
il
cuore
aperto
e
disponibile,
stare
alla
presenza
di
Dio
anche
nell’aridità:
ci
possono
essere
tempi
di
aridità,
è
normale.
Significa
che
c’è
una
resistenza
interiore
o
qualcosa
da
mettere
a
posto,
ma
non
vuol
dire
che
si
debba
cambiare
tipo
di
preghiera.
Non
bisogna
tornare
alla
preghiera
di
prima
per
il
fatto
che
dava
più
sicurezza,
ma
andare
avanti
verso
una
preghiera più semplice.
Ma io sono un tipo molto razionale: desidero conoscere, capire, riflettere.
Il
ragionamento
è
importante,
ci
vogliono
basi
dottrinali
solide,
non
astratte,
perciò
è
importante
la
lettura
per
acquistare
queste
basi,
ma
al
di
fuori
del
tempo
di
preghiera:
anche
durante
gli
Esercizi
Spirituali
è
meglio
leggere
e
riflettere
non
nel
tempo
della
preghiera
ma
negli
intervalli,
e
durante
i
tempi
di
preghiera
rimanere
in
un
atteggiamento
molto
semplice.
E allora, tutti i punti delle meditazioni che vengono proposti ?
Negli
Esercizi
Spirituali
il
tema
della
preghiera
è
dato
solo
per
fissare
l’attenzione
e
non
tanto
per
rifletterci
sopra.
Il
cammino
avverrà
ugualmente
ma
in
modo
molto
più
semplice e intenso: bisognerà dare più attenzione alle mozioni dell’affettività (pace, gioia, desolazione…). Il principio fondamentale è di non forzare mai …
Non
occorre
leggere
tanto,
basta
reagire
a
qualche
passo
della
Scrittura:
quando
si
reagisce
è
già
preghiera.
Negli
intervalli,
invece,
riprendere
i
testi
come
lettura:
non
è
necessario
esaurire
l’argomento;
ciò
che
interessa
è
lo
stato
d’animo
e
i
pensieri
che
vengono.
Non
voler
anticipare
i
tempi
successivi:
questo
tocca
al
Direttore.
L’esercitante
deve prestare attenzione alla materia proposta e basta.
Per favore, parliamo di queste mozioni dell’affettività …
Come
educare
questo
senso
di
presenza
affettiva?
Ci
vuole
una
certa
coscienza
intellettuale:
la
coscienza
affettiva
infatti
non
può
essere
completamente
vuota,
anche
se
il
contenuto
continua
a
rimanere
generico;
non
potrebbe
continuare
a
lungo
senza
un
contenuto:
ci
vuole
una
parola,
un’immagine,
un
pensiero
per
alimentarla,
ma
basta
ben
poco e perciò non esige un grande impegno psichico.
E che cosa vuol dire “esaminare la preghiera”? Quali sono i criteri per farlo? Io non so come parlare della mia preghiera …
Non
ha
molta
importanza
in
questo
caso.
E’
il
Direttore
che
chiede
e
valuta
e
non
occorre
che
l’esercitante
vi
si
impegni
molto:
può
servire
per
aiutare
altri
o
per
evitare
una
preghiera
troppo
intellettuale.
Più
la
preghiera
è
semplice
e
meno
se
ne
può
parlare:
non
occorre
pensare
a
come
esprimerla,
ciò
che
conta
è
la
tranquillità
dell’animo,
lo
stato
generale di pace. La preghiera non è facilmente comunicabile se è profonda.
Tempo fa, mi era facile pregare in silenzio, davanti al Signore: era molto bello ma ora non ci riesco più.
Un
altro
errore
è
che
tendiamo
a
valutare
la
nostra
vita
spirituale
dalla
coscienza
che
ne
abbiamo
e
a
considerare
la
preghiera
come
l’unico
aspetto
della
vita
spirituale.
Invece,
il
lavoro
apostolico
fa
parte
della
vita
spirituale
tanto
quanto
la
preghiera,
perché
sollecita
a
crescere
nelle
virtù
teologali:
fede
e
fiducia
in
Dio
che
opera
attraverso
di
noi,
carità
e
attenzione verso gli altri.
Poi,
non
si
deve
confondere
la
coscienza
che
si
ha
della
preghiera
con
l’essenza
della
preghiera
che
è
la
vita
teologale:
tra
di
loro
non
vi
è
corrispondenza,
anzi
spesso
sono
in
contrapposizione,
perché
si
può
pensare
di
avere
una
interiorità
ricca
e
avere
invece
una
vita
teologale
debole,
oppure
sentirsi
molto
lontani
dal
Signore,
ma
di
fatto
essergli
molto vicino. La vita spirituale non si misura dalla coscienza che se ne ha, ma dagli atteggiamenti concreti di amore, di fiducia, di serenità di fondo, di rinuncia a sé stessi.
Ma io ho un ministero da svolgere, per aiutare altre persone: come lo posso fare se mi sento così incapace?
Uno
può
veramente
aiutare
gli
altri
in
modo
efficace
anche
se
si
sente
nella
confusione
e
nella
notte.
In
realtà
noi
trasmettiamo
qualcosa
che
non
ci
appartiene:
ci
viene
da
Dio
e
noi
siamo
solo
strumenti
e
canali
per
donarlo
ad
altri.
Possiamo
far
del
bene
agli
altri
anche
se
noi
stessi
siamo
nella
notte:
certo,
il
canale
deve
essere
sgombro,
il
vetro
trasparente…
ma
è
sempre
Dio
che
opera!
Il
dono
ci
è
dato
per
gli
altri
e
non
per
noi
stessi,
per
cui
posso
consolare
gli
altri
e
condurli
a
Dio
anche
se
io
stesso
sono
nella
sofferenza.
La
Parola
di
Dio
che
noi
comunichiamo
non
è
legata
a
quello
che
io
capisco
o
sento
o
vivo…
Il
ministero
è
separato
dalla
persona
e
non
posso
far
dipendere
la
sua
efficacia
dalla
mia
coerenza
o
dalla
consapevolezza
che
ne
ho:
sono
due
cose
totalmente
diverse.
Uno
può
comunicare
gioia
e
pace
anche
se
personalmente
vive
nella
sofferenza.
“Si
può donare agli altri ciò che per se stessi non si possiede…”
Mi sembra di mancare di autenticità e di sincerità …
Non
si
deve
confondere
la
coscienza
che
si
ha
di
qualcosa
con
la
realtà
della
fede:
la
coscienza
può
essere
più
o
meno
intensa
e
in
ogni
caso
non
dipende
da
noi,
e
può
non
corrispondere
alla
realtà
interiore.
All’inizio
della
vita
spirituale
le
due
cose
vanno
di
pari
passo.
Poi
fede
e
amore
si
approfondiscono,
ma
può
mancarne
la
coscienza:
uno
può
sentirsi
lontano
da
Dio,
ma
è
una
purificazione….
O
crede
di
non
pregare,
ma
è
una
preghiera
più
profonda…
Ci
sono
momenti
di
preghiera
intensa,
ma
non
possono
durare
sempre
e
allora
dopo
sembra
di
non
pregare
più,
ma
la
disposizione
di
fondo
non
cambia,
anche
se
cambia
la
coscienza
che
se
ne
ha.
L’importante
è
mantenere
un
atteggiamento interiore di abbandono e di offerta e non tanto averne coscienza; magari uno non se ne accorge, ma lo si vede dall’esterno perché c’è una serenità di fondo.
Quante distrazioni nella preghiera: è davvero un cinema di immagini, di pensieri che mi occupano la mente, spesso sono confusi, senza senso, e mi disturbano molto.
Non
bisogna
sforzarsi
per
vincere
certi
pensieri,
perché
non
sono
vere
distrazioni
ma
solo
una
fluttuazione
superficiale
senza
un
vero
contenuto.
Piuttosto,
occorre
fare
il
contrario:
lasciarli
andare
e
non
seguirli,
se
no
ci
si
stanca
inutilmente
e
si
peggiora
la
situazione.
Non
sono
vere
distrazioni,
ma
sono
indipendenti
dalla
volontà
e
indicano
un
approfondimento
della
preghiera,
se
invece
si
cerca
di
vincerle,
non
si
riuscirà
mai
ad
approfondire
la
preghiera.
Ė
inutile
mettersi
a
lottare:
ci
si
affatica
inutilmente.
Cercare
di
trovare
il
contatto
con
Dio
al
di
sopra
di
queste
fluttuazioni
della
mente
che
non
sono
controllabili
con
la
volontà.
Certo
non
é
un
raccoglimento
sensibile
come
lo
si
vorrebbe
avere, ma è una purificazione della preghiera.
Nel
caso
della
vera
preghiera
non
manca
mai
il
senso
di
pace
e
di
presenza:
anche
se
mente
e
immaginazione
divagano,
il
cuore
rimane
alla
presenza
di
Dio;
invece
nel
caso
di
vere distrazioni sono tutte le nostre facoltà che vengono sottratte alla presenza di Dio.
Mi pare di perdere tempo, il tempo prezioso (che è sempre limitato) che vorrei dedicare alla preghiera.
Bisogna
distinguere
se
la
divagazione
della
mente
e
dell’immaginazione
è
dovuta
a
un
raccoglimento
più
sottile
e
meno
sensibile
(il
“
fischio
del
Pastore”
come
dice
S.
Teresa)
e
allora bisogna sostenere il silenzio; se invece questo raccoglimento non c’è, allora può essere utile aiutarsi leggendo, ma pochissimo, solo una frase che aiuti a fissare la mente.
Sono
situazioni
molto
diverse
e
bisogna
distinguerle:
man
mano
che
l’esperienza
si
approfondisce,
si
chiarisce.
Ad
ogni
modo,
nel
dubbio,
è
meglio
rimanere
davanti
al
Signore
in silenzio, senza tornare a forme di preghiera che andavano bene prima, ma che sono meno profonde.
E’ difficile, quando non sento la presenza del Signore: è un dolore profondo, un senso di vuoto nell’anima …
Il
senso
doloroso
del
desiderio
di
Dio
è
normale:
indica
una
tendenza
profonda
verso
Dio:
la
sofferenza
è
tanto
più
forte
quanto
più
questo
desiderio
è
profondo
e
vero.
Sentire
questa
sofferenza
è
positivo.
Se
c’è
il
desiderio,
se
si
soffre
per
l’assenza
è
segno
che
c’è
una
presenza
di
Dio,
anche
se
non
è
percepibile.
Come
dice
san
Giovanni
della
Croce
nel Cantico spirituale: “Dove ti sei nascosto, mio Diletto…?”.
Bisogna
dunque
sostenere
questo
desiderio
e
non
tornare
alla
preghiera
discorsiva;
ci
vuole
molto
coraggio…
bisogna
fidarsi,
perché
il
deserto
fa
paura…
Ma
attraverso
questo
deserto
il
Signore
parla,
non
all’intelligenza
o
all’affettività
sensibile,
ma
a
un
livello
più
profondo,
al
cuore.
Bisogna
camminare
verso
un
rapporto
col
Signore
che
non
dipenda
dalla sensibilità: il Signore lo si incontra nella fede, nella speranza e nell’amore.
Come fare, allora?
Invece
di
atti
distinti,
bisogna
curare
di
più
un’attenzione
globale
al
mistero
e
alla
presenza
di
Dio
e
non
voler
fissare
tante
idee
particolari:
queste
infatti
danno
sicurezza
e
soddisfazione
perché
sono
distinte,
ma
è
una
preghiera
meno
profonda.
Tenere
il
cuore
attento
alla
presenza
di
Dio
è
un
tipo
di
preghiera
contemplativa
che
sfugge
al
nostro
controllo,
ma
è
più
profonda.
Bisogna
curare
il
raccoglimento
durante
il
giorno
e
rinnovare
spesso
l’offerta
del
nostro
cuore
al
Signore
per
ritrovarsi
più
raccolti
nel
tempo
della
preghiera profonda.
La prego, vorrei che mi spiegasse ancora!
Non
cercare
di
fissare
idee
o
pensieri
su
Dio,
perché
il
senso
della
presenza
di
Dio
cresce
al
di
là
del
pensiero
e
delle
immagini.
In
questa
fase
di
passaggio
si
può
sentire
un
senso
di
disgregazione
perché
non
tutte
le
facoltà
sono
integrate
e
non
seguono
l’affettività
che
è
presente
a
Dio;
in
seguito
si
integreranno
meglio
e
la
persona
si
troverà
più
unificata.
E’ un progresso normale nella preghiera che si semplifica sempre più ed è normale che si pensi sempre meno.
E’
lo
sviluppo
normale
della
preghiera,
qual
è
descritto
nei
libri
e
non
bisogna
averne
paura
e
nemmeno
cercare
sicurezze
analizzando
il
proprio
pensiero,
ma
accettare
questa
assenza
di
pensieri
definiti
e
aderire
a
Dio
nella
fede.
E’
un
vuoto
di
contenuti
intellettuali,
di
pensieri,
ma
non
è
un
vuoto
assoluto
perché
c’è
il
senso
della
presenza
di
Dio,
manca la “conoscenza particolare “ ma c’è il senso di Dio.
E’ tutto diverso da quello che mi hanno insegnato fin qui …
Occorre
distaccarsi
anche
da
ciò
che
un
tempo
era
servito
a
sostenere
il
cammino
di
ascesi:
andava
bene
prima,
ma
ora
è
cambiato,
fa
parte
della
crescita
nella
vita
spirituale
ed è normale a un certo punto fare a meno di ciò che prima era servito.
Il
Signore
non
è
legato
a
niente,
nemmeno
a
esperienze
passate.
Ė
libero
di
manifestarsi
come
vuole
e
si
può
rendere
presente
in
molti
modi:
il
Signore
è
sempre
presente
e
conduce sempre avanti, anche se per vie nuove e sconosciute.
Noi
siamo
sempre
portati
a
voler
fare
noi
qualcosa,
a
misurare
il
progresso
da
quello
che
facciamo,
invece
no:
ad
un
certo
punto
la
situazione
spirituale
cambia.
Il
nostro
impegno
va
messo
non
nel
contrastare
questo
stato
di
passività,
ma
invece
nell’assecondarlo,
nel
lasciar
agire
sempre
di
più
il
Signore
e
ridurre
la
nostra
attività.
Allora
si
riceve
tutto
come
un
dono,
in
una
dimensione
nuova…
E’
difficile
accettare
di
essere
passivi
perché
sembra
di
non
fare
niente
e
ci
si
sente
a
disagio.
Invece
in
quel
momento
il
Signore
opera in profondità e compie quello che noi non saremmo mai capaci di fare…
Il senso del peccato
Vorrei capire meglio che cos’è il senso del peccato.
Può
essere
difficile
capire
il
peccato,
in
questo
tempo
in
cui
si
è
perso
il
senso
del
peccato
e
il
significato
di
certi
valori.
Non
si
deve
considerare
il
peccato
in
senso
troppo
stretto,
ma
averne
una
concezione
ampia:
non
tanto
il
singolo
atto
peccaminoso,
quanto
una
rottura
dell’alleanza.
Se
manca
una
esatta
comprensione
dottrinale,
è
normale
che
la
preghiera si blocchi.
Il
senso
del
peccato
non
è
legato
al
sentirsene
o
meno
responsabili:
basta
che
io
avverta
la
negatività
che
è
in
me
e
già
appartengo
al
mondo
del
peccato:
che
questo
sia
frutto
di
una
colpa
personale
o
venga
dal
mondo
importa
poco;
che
questi
ostacoli
vengano
da
dentro
di
noi
o
dall’ambiente
non
importa,
perché
il
fatto
è
che
non
siamo
liberi
interiormente,
non
siamo
docili
al
Signore.
Per
questo
si
prega
di
“sentire
il
disordine
delle
mie
attività”
(ES
63)
per
potersi
purificare.
Si
chiede
“la
conoscenza
del
mondo”
perché
questa
pesantezza
ha
origine
nella
mentalità
comune;
c’è
evidentemente
un
influsso
del
mondo
così
com’è
ed
è
importante
conoscere
il
mondo
del
peccato
perché
ne
sono
in
qualche
modo
partecipe.
Per
purificare
e
raddrizzare
questo
disordine
è
necessario
prenderne
coscienza:
il
mio
essere
storico
partecipa
a
questo
mondo
di
peccato,
tutto ciò che in me è negativo risale al mondo del peccato.
Come fare per uscire da una dimensione intimistica del peccato?
La
disposizione
nei
confronti
del
passato
(pentimento)
dipende
molto
dalle
persone
e
dall’ambiente
in
cui
viviamo,
che
certo
non
ci
aiuta
a
comprendere
il
senso
del
peccato.
Ma
è
meglio
puntare
su
una
disposizione
positiva,
che
dia
uno
slancio
verso
il
futuro;
lottare
contro
ciò
che
è
legato
al
peccato
nel
mondo
(la
miseria,
l’oppressione)
per
essere
strumenti
di
redenzione.
Qui
si
manifesta
la
dimensione
apostolica:
c’è
un
mondo
di
peccato
che
si
oppone
al
mondo
della
redenzione.
Questo
allarga
molto
il
senso
del
peccato
e
lo
fa
uscire
da
una
dimensione
intimistica.
Siamo
strumenti
di
redenzione
e
dobbiamo
conoscere
ed
eliminare
ciò
che
altera
questa
trasparenza;
cerchiamo
di
agire
in
modo
positivo nel mondo, mettendo amore, pace e fraternità, lottando contro il disordine senza voler cercare di determinare di chi sia la colpa, un giudizio che spetta solo a Dio.
La
mentalità
corrente
non
aiuta
a
far
sentire
la
responsabilità
personale,
del
rifiuto
dell’amore
di
Dio:
si
cerca
di
coprire
tutto,
di
scusare,
di
dire
che
uno
non
era
responsabile,
che
non
sapeva
o
che
non
voleva
farlo….Una
volta
invece
era
molto
più
chiaro,
il
peccato
era
più
oggettivo.
Ora
più
che
al
peccato
contro
Dio
si
è
sensibili
al
peccato
contro
l’uomo, ma anche questo in categorie sociologiche molto riduttive.
Anche
se
siamo
immersi
in
questa
mentalità,
dobbiamo
affinare
la
nostra
coscienza
spirituale.
Ciò
che
si
verifica
in
relazione
col
progresso
spirituale:
un
principiante
può
veramente
non
aver
coscienza
di
certe
sue
resistenze
all’amore
di
Dio.
Ë
più
facile
rendersi
conto
di
mancanze
esterne
di
amore
e
di
disponibilità
verso
gli
altri,
mentre
solo
una
coscienza sensibile nota resistenze o mancanze verso l’amore di Dio, secondo il grado del suo progresso spirituale e crescendo nella comprensione dell’amore di Dio.
Come si può lottare contro il peccato?
Vi
sono
due
modi
di
lottare
contro
il
peccato:
o
purificarsi
dal
male
per
crescere
nella
fede
e
nell’amore,
oppure
dilatare
la
coscienza
e
cioè
aprirsi
di
più
ai
valori
spirituali,
crescere
nell’amore
e
in
questo
modo
vincere
il
male.
Dipende
dallo
stato
spirituale,
dalla
maturità
della
fede:
non
si
può
applicare
a
tutte
le
fasi
della
vita
gli
stessi
criteri
che
si
usano per i principianti. C’è un’evoluzione e una crescita e bisogna tenerne conto, è tutta la vita che matura.
La
conversione
ci
vuole
sempre,
ma
non
la
si
può
pensare
sempre
come
la
si
pensava
una
volta:
incentrata
su
cose
da
fare
o
da
non
fare.
La
vita
si
fa
più
semplice
e
unificata
e
non occorre più guardare a tante cose in modo così minuzioso.
Anche
l’esame
di
coscienza
a
un
certo
punto
non
ha
più
senso
perché
la
coscienza
diviene
sensibile
e
attenta
e
ci
si
accorge
subito
se
c’è
qualcosa
che
non
va,
perché
si
vive
continuamente
in
stato
di
“esame”.
D’altra
parte
su
certe
cose
non
si
ha
una
presa
diretta,
non
è
possibile
liberarsene
da
soli.
A
questo
punto
lo
stesso
”Esame”
in
cinque
punti
di sant’Ignazio non corrisponde più al nostro senso di morale e di peccato: ora conta di più qualche momento intenso di contatto con Dio!
Ma quand’è che si può dire che un pentimento è vero?
Il
vero
pentimento
è
il
senso
dell’amore
sprecato:
è
accorgersi
di
essere
ancora
centrati
su
noi
stessi
e
non
su
Dio,
di
porre
le
nostre
sicurezze
in
tante
cose
diverse
da
Dio,
di
non
essere
totalmente
al
suo
servizio.
Certo,
queste
tendenze
fanno
parte
della
nostra
natura
umana
e
non
dipendono
dal
nostro
controllo,
ma
non
devono
impedirci
di
metterci
davanti
a
Dio
nella
fede,
nella
speranza
e
nell’amore.
Queste
virtù
non
dipendono
dalla
mia
volontà
né
dal
sentimento,
ma
sono
dono
di
Dio.
E
così
anche
il
senso
del
peccato
è
dono
di
Dio.
Ė
giusto
desiderare
di
sentirlo,
perché
ciò
è
collegato
al
senso
dell’amore
di
Dio,
ma
in
fondo
quel
che
conta
non
è
tanto
che
io
abbia
chiaro
il
senso
del
mio
peccato,
quanto
il
fatto
che
Dio
è
misericordia
e
amore…
Allora
possiamo
dire:
“Signore,
tu
conosci
il
mio
peccato,
anche
se
io
non
riesco
neppure
a
vederlo,
e
io
credo
nella
tua infinita misericordia!”. Questo è ciò che conta veramente!
Perché e in che senso si parla di seconda conversione?
La
seconda
conversione
è
diversa
dalla
prima:
non
si
tratta
tanto
di
correggere
un
atteggiamento
sbagliato
facendolo
diventare
giusto,
quanto
piuttosto
di
operare
un
raddrizzamento
interiore
e
di
far
convergere
tutto
verso
Dio.
E’
il
processo
con
cui
ci
si
dà
interamente
al
Signore:
la
donazione
si
fa
sempre
più
completa
e
coinvolge
veramente
tutta
la
persona.
E’
eminentemente
passiva,
è
il
Signore
che
opera:
prima
uno
costruiva
la
propria
vita
spirituale
–
e
faceva
bene
a
farlo
–
ma
questo
avveniva
secondo
il
proprio
modo
di
pensare
e
i
propri
programmi;
poi
invece
si
capisce
che
è
Dio
colui
che
opera.
Tutto
ciò
che
c’è
da
fare
è
lasciarlo
agire,
collaborare
ma
in
modo
più
passivo
e
anche
accettando
di
non
capire…
L’atteggiamento
fondamentale
è
di
lasciar
fare,
di
aderire,
anche
se
la
sensazione
soggettiva
è
dolorosa
e
sembra
distruggere
la
persona
invece
di
costruirla
(come
lo
scultore
che
spacca
il
blocco
di
marmo
per
far
emergere
la
figura
che
ha
in
mente….)
E’
il
momento
di
crescere
nella
fede,
di
lasciarsi
fare;
è
una
purificazione passiva nella quale si deve rinunciare a vedere dove si sta andando e per quale via.
A
un
certo
punto
è
normale
sentire
una
chiamata
a
un
maggior
raccoglimento
e
silenzio;
non
vuol
dire
che
si
debba
pensare
a
un
altro
tipo
di
vita:
si
tratta
piuttosto
di
una
chiamata
a
un
raccoglimento
interiore
da
vivere
nelle
varie
attività
della
vita
apostolica,
sia
pur
cercando
di
evitare
tutto
ciò
che
è
inutile
e
può
distrarre.
A
poco
a
poco,
si
imparerà
a
distinguere
il
silenzio
e
la
solitudine
abitati
da
Dio
da
ciò
che
è
solo
assenza
di
parole.
E’
una
chiamata
di
Dio
a
un
raccoglimento
più
profondo,
che
non
si
lascia
facilmente
disturbare
da
quello
che
può
succedere
lungo
la
giornata:
quanto
più
profondo
è
il
raccoglimento,
tanto
meno
risente
delle
circostanze
e
delle
emozioni.
Non
è
tanto
questione di tempi di silenzio e tempi di attività, ma di qualità di contatto interiore con Dio, che poco a poco va crescendo, qualunque cosa si faccia. E’ un’evoluzione normale.
Ma qualche volta questi cambiamenti fanno un po’ paura …
Non
bisogna
avere
paura,
ma
lasciarsi
portare
perché
è
il
Signore
che
opera.
Bisogna
assecondare
questo
invito
di
Dio
e
buttarsi…
La
paura
può
venire
dal
fatto
che
ci
si
trova
davanti
a
qualcosa
di
nuovo,
ma
occorre
fidarsi
e
assecondare
con
generosità
questo
invito.
A
poco
a
poco
la
preghiera
si
fa
continua
e
più
semplice:
l’unico
modo
per
avere
una
preghiera
continua
è
la
semplicità,
perché
solo
così
diminuisce
lo
sforzo
psichico
e
la
tensione
e
si
può
vivere
in
un
atto
continuo
di
preghiera.
Allora
è
facile
mettersi
in
contatto
con Dio nei tempi di preghiera esplicita: appena uno è libero dalle occupazioni, ricade spontaneamente nella preghiera.
L’affettività spirituale e il discernimento delle mozioni interiori
Tante volte mi capita di non saper giudicare il senso di una mia reazione interiore a una situazione …
Non
bisogna
contrapporre
moti
psicologici
e
moti
spirituali
e
nemmeno
serve
analizzare
la
differenza:
non
è
la
struttura
che
conta,
ma
l’effetto
che
producono,
e
cioè
se
aiutano
o
se
ostacolano
la
crescita
spirituale.
Decisiva
è
la
finalità
spirituale
dei
moti
affettivi;
per
questo
è
necessario
vederne
il
dinamismo.
La
vita
cristiana
porta
sempre
verso
una
crescita
e
tutto
ciò
che
fa
andare
avanti
viene
dallo
spirito
buono,
mentre
ciò
che
arresta
la
crescita
viene
da
quello
cattivo.
Quel
che
conta
è
la
direzione
verso
cui
questi
moti
affettivi
conducono:
se
è
positiva
o
negativa.
Una
malattia
accolta
con
fede
può
avere
un
valore
positivo
in
senso
spirituale;
un
senso
di
benessere,
che
sembra
positivo,
può
trasformarsi
in
vanagloria
e
diventare
ostacolo
alla
crescita
spirituale.
Niente
possiede
un
significato
per
sé
stesso,
il
significato
viene
dal
dinamismo
spirituale:
le
cose
in
sé
sono
“indifferenti”,
dipende
da
dove
mi
portano,
se
ne
faccio
degli
strumenti
di
crescita
o
meno.
In
tal
senso
il
padre
spirituale
è
in
grado
di
giudicare
meglio
della
persona
interessata:
anche
una
situazione
percepita
come
negativa
e
faticosa
può
portare
a
una
crescita.
Mentre
la
persona
che
ne
sta
soffrendo
non
è
in
grado
di
vederlo,
il
padre
spirituale
può
osservare con obiettività dove porta il dinamismo.
Vorrei comprender meglio il ruolo dei moti affettivi e come discernere la direzione in cui portano.
Questi
moti
affettivi
sono
passivi,
in
quanto
costituiscono
un
contraccolpo,
il
modo
con
il
quale
ognuno
reagisce
alla
realtà,
e
non
si
possono
creare
artificialmente:
sarebbe
come
prendere
una
droga
per
sentirsi
bene.
Non
è
possibile
modificare
i
sentimenti,
ma
è
sempre
possibile
crescere
nella
fede
e
nell’amore
anche
attraverso
uno
stato
d’animo
negativo.
I
moti
di
consolazione
e
desolazione
sono
moti
affettivi,
ma
non
molto
profondi:
da
una
parte
bisogna
prestare
loro
attenzione
perché
sono
significativi,
ma
d’altra
parte
si
deve
lasciare
spazio
a
un
livello
più
profondo.
Dipende
molto
dalle
persone,
che
sono
più
o
meno
emotive.
Bisogna
arrivare
a
una
affettività
profonda,
duratura,
che
non
si
turba
facilmente: il discernimento sta appunto nel riconoscere che ci sono vari livelli di affettività e arrivare all’affettività profonda.
Per poter fare il discernimento occorre chiedersi: da dove è nato questo pensiero? Da dove viene? Dove porta? Che effetti ha? Dona pace o inquietudine? Che significato ha?
All’inizio
non
si
può
sapere
dove
porta,
allora
bisogna
lasciar
sviluppare
il
pensiero
e
vedere
come
si
evolve.
Chiedere
luce
per
poter
veder
chiaro
in
questa
successione
di
pensieri:
è
la
persona
stessa
che
deve
vedere
e
non
ci
si
può
aspettare
una
parola
dall’esterno.
Bisogna
vedere
come
si
manifesta
lo
spirito
cattivo
in
ogni
persona:
ognuno
ha
il
suo
modo
di
essere
tentato
che
si
può
ripetere
in
modo
analogo
in
futuro.
Cercare
di
“seguire
il
corso”
del
pensiero:
ritrovare
in
quale
momento
è
emerso
quel
pensiero.
Ė
importante capire come sono stato ingannato per saper applicare questa presa di coscienza quando mi ritrovo in condizioni simili.
Questa indicazione mi sembra molto importante. In che cosa consiste allora una pedagogia dell’affettività?
La
formazione
religiosa
e
tutta
la
spiritualità
degli
anni
passati
risentiva
molto
del
razionalismo
dell’Ottocento
e
pensava
di
poter
negare
ogni
manifestazione
affettiva.
Questo
però non è possibile, tanto meno all’inizio della vita spirituale; il rischio è di impoverire le persone e di rimanere senza niente.
Occorre
distinguere
i
vari
livelli
dell’affettività
(fisico,
psicologico,
spirituale,
soprannaturale)
e
far
convergere
tutto
verso
il
livello
che
vogliamo
sia
quello
dominante.
Sviluppare
l’affettività spirituale è un bene, perché così l’adesione al Signore è più piena, coinvolge tutta la persona e non solo la volontà e la ragione.
Ogni
livello
dell’affettività
tende
a
essere
autonomo
e
a
prevalere
attirando
a
sé
gli
altri:
ad
esempio,
quando
uno
è
malato,
tutto
si
focalizza
attorno
alla
sensazione
di
malattia.
Anche
l’ambiente
socio-culturale
riveste
una
grande
importanza,
perché
può
dare
maggior
valore
a
un
livello
piuttosto
che
a
un
altro.
Una
sana
pedagogia
dell’affettività
non
consiste
nel
reprimere
o
ignorare
i
livelli
inferiori
che
fanno
parte
della
persona
umana,
ma
nel
prenderne
coscienza
e
integrarli
nel
livello
che
vogliamo
sia
quello
prevalente
e
cioè il livello spirituale. E’ un processo lento e graduale in cui non si può anticipare nulla, ma occorre seguire le leggi del tempo.
Come si potrebbe definire un rapporto positivo con il passato? Ė utile coltivare la memoria di esperienze e intuizioni del passato?
E’
bene,
sì,
trarre
lezioni
dal
passato:
se
una
cosa
ci
aiuta
la
usiamo,
se
no
la
lasciamo.
Se
è
una
perdita
di
tempo
o
un
rimpianto
del
passato,
non
serve;
se
invece
porta
una
luce sul presente, va bene: tutto dipende dall’effetto che ha.
L’origine
della
consolazione
o
della
desolazione
conta
poco,
cioè
se
viene
da
cause
naturali
o
meno.
Ciò
che
conta
è
il
suo
significato
spirituale;
in
questo
modo
non
si
perde
tempo a analizzarne la causa, perché ciò che conta è il frutto che porta e non la causa.
L’esperienza
spirituale
ha
già
avuto
il
suo
effetto
e
non
serve
rievocarla
successivamente:
è
il
presente
che
conta
e
la
volontà
di
Dio
sta
nel
presente,
non
nel
ricordo
del
passato
o
in
un
futuro
immaginario.
La
grazia
viene
data
per
il
presente
e
basta:
bisogna
andare
avanti
e
non
fermarsi
a
guardare
il
passato.
Può
essere
utile
se
serve
a
ringraziare
Dio,
ma
c’è
sempre
il
pericolo
di
guardare
a
se
stessi,
di
voler
possedere
il
passato.
Invece
no:
“Dimentico
del
passato
e
proteso
verso
il
futuro,
corro
verso
la
meta”
(Fil
3,13-14).
C’è
un
tempo
per
ricordare
e
un
tempo
per
dimenticare….
Come
per
l’intelligenza,
che
fino
a
un
certo
punto
è
bene
usare
e
poi
la
si
lascia,
così
anche
per
la
memoria:
a
un
certo
punto bisogna staccarsi dai ricordi e andare avanti. Non c’è contraddizione perché sono fasi diverse della vita spirituale.
Ma allora quello che valeva in una fase, può non valere più in un’altra?
Un
errore
della
nostra
formazione
è
quello
di
credere
che
le
regole
di
un
tempo
vadano
bene
sempre;
invece
no,
la
persona
cresce
e
ciò
che
andava
bene
un
tempo,
poi
non
serve più. Se non si sa che è giusto così, questo crea disorientamento.
Dio
è
sempre
in
avanti:
non
dobbiamo
attaccarci
alle
grazie
del
passato.
Ė
un’illusione
pensare
che
prima
andasse
meglio,
perché
il
cammino
spirituale
è
sempre
progressivo,
se
non
c’è
il
peccato.
Dobbiamo
staccarci
dai
beni
materiali
e
anche
da
quelli
spirituali,
non
cercare
sicurezze
nel
passato
ma
confidare
totalmente
in
Dio:
conta
solo
il
presente
e il futuro.
La
memoria
presenta
due
aspetti:
la
capacità
di
ricordare
le
cose
passate
e
il
fondo
dello
spirito,
cioè
la
nostra
coscienza
in
cui
Dio
è
presente.
Invece
di
avere
il
ricordo
di
vari
beni particolari, rimane solo il ricordo della presenza di Dio, se non pensiamo ad altre cose particolari, emerge la presenza di Dio.
Questo significa allora che l’affettività spirituale segue regole proprie?
Non
si
deve
far
coincidere
una
tranquillità
psicologica
con
la
serenità
che
viene
dalla
fede
e
dal
raccoglimento
in
Dio:
sono
due
livelli
differenti,
da
non
confondere.
L’affettività
è
il
nostro
modo
di
reagire
alle
situazioni
e
alla
vita:
c’è
un
livello
psico-fisico,
un
livello
superiore
e
un
livello
spirituale,
sono
livelli
diversi
che
si
uniscono
nella
coscienza
che
la
persona ha di sé.
L’affettività
spirituale
è
diversa
da
quella
sensibile,
perché
il
rapporto
con
Dio
è
diverso
dalla
relazione
con
una
persona
umana.
La
coscienza
che
noi
abbiamo
della
vita
spirituale
e
del
rapporto
con
Dio
non
corrisponde
alla
realtà
di
questa
vita,
che
dipende
invece
dall’atteggiamento
di
fondo
della
volontà.
Non
dipende
da
noi
avere
certi
sentimenti spirituali: possiamo chiederli a Dio, ma ciò che conta è l’adesione della volontà.
Si
parla
di
una
sensazione
di
“vuoto”
nella
preghiera:
a
volte
manca
un’attività
discorsiva
consapevole,
ma
a
livello
profondo
c’è
la
presenza
di
Dio.
L’attività
discorsiva
può
servire
per
arrivare
al
contatto
con
Dio,
ma
se
il
Signore
concede
già
questa
sua
presenza
non
c’è
più
bisogno
di
elaborare
concetti,
idee
o
sentimenti:
allora
il
“
vuoto”
non
è
vero vuoto, ma è carico della presenza di Dio…
Quando
si
fanno
cose
secondo
la
volontà
di
Dio,
in
obbedienza
a
Lui,
il
raccoglimento
non
ne
viene
turbato.
Il
vero
raccoglimento
non
viene
dall’ambiente,
ma
da
Dio
che
agisce
all’interno
di
noi,
anche
se
è
pur
sempre
importante
una
certa
disciplina
di
vita
e
silenzio
esteriore.
Questa
presenza
di
Dio,
al
di
là
di
un’attività
discorsiva
cosciente,
può
assumere
aspetti
diversi
secondo
le
persone.
Per
alcuni
può
essere
una
presenza
affettiva,
per
altri
un’umiltà
profonda
in
cui
si
riconosce
di
non
poter
far
nulla
senza
Dio,
o
una
libertà interiore, una fiducia di fondo… ognuno deve trovare il suo modo.
E’ bene fermarsi in questo silenzio, che è riposo contemplativo, e non allontanarsene leggendo o facendo o altro.
Vorrei che mi parlasse ancora del valore positivo della sensazione di “vuoto”.
“Le
cose
vecchie
sono
passate,
ma
quelle
nuove
non
ci
sono
ancora”
(2Cor
5,17).
La
sensazione
di
“vuoto”
indica
una
fase
spirituale
importante
e
positiva.
Il
desiderio
di
Dio
dilata
la
capacità
di
accoglierlo
ed
è
perciò
da
coltivare,
anche
se
ad
un
certo
punto
cresce
da
solo,
pur
dovendo
essere
accompagnato
da
pazienza,
umiltà,
disponibilità.
Non
si
ha
nessun
diritto
né
si
può
esigere
nulla
da
Dio.
Aver
fretta,
essere
impazienti
e
ansiosi
è
un
difetto
dei
principianti,
è
“gola
spirituale”.
Bisogna
lasciare
tutto,
veramente
tutto,
anche questo desiderio – che in sé è buono – per essere disponibili a ciò che Dio vorrà; rimanere in attesa nella pace e nella pazienza che Egli si manifesti quando vorrà.
Certo,
è
doloroso!
Ma
non
si
deve
cadere
nella
tentazione
di
cercare
dei
surrogati.
Occorre
invece
accettare
questo
vuoto:
Dio
é
presente,
ma
lo
si
coglie
solo
nella
fede
e
nella
speranza, anche se la preghiera è arida e faticosa.
Soffrire
per
il
senso
di
vuoto,
per
l’assenza
di
Dio
è
una
forma
di
desiderio,
è
preghiera,
anche
se
non
sembra.
Ė
un
modo
per
mezzo
del
quale
il
desiderio
di
Dio
cresce
e
si
esprime: amare una persona, desiderare di stare insieme e soffrire per la sua assenza è amore, è preghiera.
A
volte
sembra
che
anche
il
desiderio
di
Dio
sia
spento,
ma
non
è
vero:
la
sofferenza
che
si
prova
nella
notte
è
segno
di
una
presenza
di
Dio
che
non
scompare
ma
si
annebbia
e non è più percepita a livello sensibile, come prima. Ma il Signore c’è, ci ama, ci cerca sempre: questo è ciò che conta!
L’integrazione di preghiera e azione
La grande questione è sempre come integrare la nostra vita attiva in mezzo agli altri con il nostro rapporto con Dio. In fin dei conti è la questione dell’apostolato …
Ciò
che
costituisce
l’unione
con
Dio
è
la
vita
teologale.
La
preghiera
è
un
mezzo,
indispensabile
ma
non
esclusivo,
per
entrare
in
contatto
con
Dio,
perciò
tutto
ciò
che
aumenta
la
vita
teologale,
la
fede,
la
speranza
e
l’amore,
unisce
strettamente
a
Dio,
anche
se
non
è
preghiera
nel
senso
stretto.
E’
importante
comprendere
questo,
perché
solo
così
può
avvenire
un’integrazione
tra
preghiera
e
vita.
La
formazione
che
veniva
data
non
aiutava
in
questo,
perché
separava
e
quasi
contrapponeva
preghiera
e
azione,
quando
invece
sant’Ignazio parla di “trovare Dio in tutte le cose”.
La
nostra
vita
si
svolge
tra
questi
tre
poli:
preghiera,
apostolato
e
vita
comune.
Ciò
che
fa
la
sintesi
tra
queste
dimensioni
–
che
possono
essere
in
contrasto
tra
loro
–
è
la
vita
teologale.
Sono
le
virtù
teologali
che
fanno
unità
nella
nostra
vita
e
superano
le
tensioni
della
vita
apostolica:
la
fede
è
fondamentale
nel
rapporto
con
Dio,
la
speranza
nell’apostolato e la carità nella vita comune.
Anche
nell’apostolato
ci
vuole
una
prospettiva
ampia
e
profonda
di
fede:
sapere
che
Dio
opera
nella
storia
e
si
serve
di
tutto
per
costruire
il
suo
Regno.
Non
siamo
abituati
a
pensare in questi termini i nostri impegni apostolici, ma in realtà è la stessa cosa che per la vita spirituale personale.
La
spiritualità
della
vita
apostolica
è
diversa
da
quella
della
vita
contemplativa:
tutto
l’apostolato,
la
vita
della
congregazione,
la
vita
comunitaria
e
di
preghiera,
tutto
è
nelle
mani
di Dio e va visto a un livello di fede.
Vorrei capire meglio in che senso la vita apostolica presuppone vie diverse di purificazione rispetto alla vita contemplativa.
La
purificazione
della
fede
avviene
nella
vita
apostolica
così
come
in
quella
contemplativa,
ma
in
modi
diversi.
La
fede
va
proposta
come
ci
è
stata
data
e
non
come
noi
la
sentiamo
soggettivamente.
La
fede
si
deve
spogliare
di
tutto
l’involucro
affettivo
che
l’ha
sostenuta
per
anni
e
ridursi
a
fede
pura,
al
nucleo
centrale
che
è
quello
dato
da
Dio.
Non
si
comunica
la
fede
come
cosa
propria,
ma
come
verità
data
da
Dio;
perciò
non
interessa
l’esperienza
soggettiva
che
uno
ne
ha:
uno
può
ritenere
di
non
avere
la
fede,
ma
riuscire a comunicarla ugualmente agli altri.
Nella
vita
apostolica
non
si
tratta
di
una
disponibilità
assoluta
e
totale,
piuttosto
ci
vuole
chiarezza
sulle
priorità.
Ė
una
questione
di
organizzazione
e
di
chiarezza:
non
siamo
tenuti
a
soddisfare
i
bisogni
di
tutti.
Bisogna
tener
presenti
le
esigenze
del
dovere
da
compiere
e
anche
della
salute.
Il
termine
non
è
una
disponibilità
ad
ogni
costo,
ma
un
servizio
valido,
e
bisogna
salvaguardare
le
condizioni
perché
esso
sia
tale.
E’
una
questione
di
discernimento;
per
questo,
quando
è
il
caso,
bisogna
anche
saper
dire
di
no;
soltanto bisogna dirlo con tranquillità e con cuore aperto.
Quali sono allora gli elementi in comune tra le due vie?
Anche
nell’attività
–
come
nella
preghiera
–
occorre
mantenere
un
atteggiamento
di
calma
e
di
abbandono:
non
significa
non
fare
nulla,
ma
rimanere
tranquilli,
senza
lasciarsi
prendere
dall’agitazione.
Ci
sono
diversi
modi
di
agire
e
si
deve
imparare
a
operare
nella
calma,
in
profondità,
senza
perdere
il
contatto
con
Dio.
Bisogna
saper
cogliere
le
indicazioni
della
volontà
di
Dio
e,
a
partire
da
lì,
agire
nella
pace,
senza
agitazione,
con
distacco,
pronti
a
lasciare
tutto
quando
il
Signore
lo
indicherà.
Come
nella
preghiera,
così
tutta
la
vita
si
pone
sotto
l’impulso
del
Signore
e
va
diminuendo
l’iniziativa
personale.
Lo
sforzo
e
l’impegno
deve
essere
di
seguire
e
assecondare
l’impulso
del
Signore
e
abbandonarsi alla sua volontà.
Quando
si
è
impegnati
nel
lavoro
non
si
può
mantenere
un’attenzione
intellettuale
a
Dio,
ma
ci
può
essere
un
tipo
di
presenza
più
semplice,
più
affettivo.
Non
è
un
raccoglimento
intenso,
non
è
un
senso
forte
di
presenza,
ma
una
presenza
più
diffusa,
affettiva:
umiltà
e
fiducia,
sentirsi
nelle
mani
di
Dio
come
uno
strumento
e
non
come
un
protagonista.
Bisogna
distinguere
vari
livelli
nell’affettività:
uno
superficiale,
che
è
soggetto
a
fluttuazioni,
agitazioni
e
distrazioni
che
dipendono
dalle
circostanze
della
vita,
e
un
altro
più
profondo, che permane nella pace e tranquillità in qualunque avvenimento. E’ a questo livello profondo che si può vivere in contatto costante con Dio.
Contemplazione
e
azione
non
vanno
contrapposte:
anche
se
è
un
approccio
molto
comune,
la
questione
può
essere
risolta
solo
con
una
visione
unitaria:
ciò
che
conta
è
la
vita
teologale che si manifesta sia nella preghiera che nell’attività. Non esiste un unico modo di incontrare il Signore, ma due: la preghiera e la carità.
Bisogna
evitare
che
la
preoccupazione
per
le
cose
da
fare
invada
tutto
il
campo
della
coscienza:
affidiamole
al
Signore
con
un
atto
di
fiducia
e
così
la
“distrazione”
può
diventare
preghiera.